Recensione: “Fuga dal vuoto – storie di uomini sconfitti” di Jacques Oscar Lufuluabo

Vorrei inaugurare la sezione di Vite Intrecciate dedicata alle recensioni parlandovi di un libro piuttosto breve ma decisamente degno di nota: trattasi di una raccolta di racconti, la quale, sebbene non perfetta, denota, dietro le storie di cui si compone, la presenza in nuce di una voce che potrebbe divenire a tutti gli effetti quella di un vero e proprio scrittore affermato.

Il libro, autopubblicato, dal titolo Fuga dal vuoto – Storie di uomini sconfitti, si struttura in sette racconti che spaziano dalle 1300 alle oltre 4000 parole per una lunghezza complessiva dell’opera inferiore alle 60 cartelle editoriali. Pur tenendo presente il ridotto prezzo del volume cartaceo (per tutte le informazioni generali del libro si veda infra), questa mancanza materiale di pagine scritte che impedisce all’opera di oltrepassare la “soglia psicologica” del centinaio di facciate potrebbe essere fonte di perplessità nella valutazione dell’acquisto, poiché si potrebbe pensare a una stiracchiatura commerciale forzata e frettolosamente messa in circolazione la cui lettura può essere agevolmente portata a termine in meno di un paio d’ore, prendendosela comoda.

Posso però assicurarvi che, pur essendo la brevità effettivamente un punto debole (qualche racconto in più sarebbe stato ottimale), ci si trova di fronte ad un’opera di uno scrittore emergente che, oltre a una lettura e una rilettura e un’ulteriore rilettura ad libitum, merita tutta la vostra attenzione e il vostro tempo.

Un’autentica voce autoriale

Il linguaggio utilizzato è abbastanza semplice e piano, privo di barocchismi o costruzioni complesse e periodi lunghi, attestandosi su un tono colloquiale ma “ripulito” e rifinito, ossia non mimetico ma assonante rispetto all’ipotetica parlata di uomini comuni, della strada; non è un caso, infatti, che alcuni personaggi risiedono, chi de facto, chi per scelta, proprio nel dedalo urbano caratteristico delle streets. È una scelta comprensibile e, soprattutto per i casi menzionati, logica/necessaria essendo i personaggi che abitano le storie “comuni” e medi, esattamente come chiunque si possa mediamente incrociare per la via di una città dalla dimensione/popolosità medio-grande. Tuttavia in tale uniformità vi è anche forse uno dei limiti espressivi dell’opera, che, apparentemente intenzionata a fornire una qualche indicazione di universalità rispetto ad un certo determinato aspetto della condizione umana nel bene e nel male (più nel male in questo libro), finisce per focalizzarsi espressivamente su una ridotta porzione di potenziali tipologie demografiche umane (il vuoto interiore di un manager appropriatamente dotato di master e pingue stipendio, o di un erudito e più o meno acclamato studioso, o di un artista di un certo successo e così via sarebbero risultati in grado di fornire più respiro oltre che una verticalità maggiore nel raggio d’azione dei temi profondi che intessono assieme i testi); per converso, tale potenziale limite è anche un punto di forza, poiché la medietà dei personaggi/protagonisti permette una maggiore possibilità di identificazione – per definizione la medietà statistica, raffigurata nella classica curva a campana, raggruppa quella che è una considerevole maggioranza.

Ortograficamente e sintatticamente non vi sono che poche inezie da segnalare, e ciò è una piacevole sorpresa oltre che un punto a favore di questa autopubblicazione, come chi sia avvezzo alla lettura di opere di tale natura sa, purtroppo, per esperienza.

Lo stile, nonostante l’adesione ad una certa semplicità di costruzione ed espressione, risulta efficace e gradevole, ed è capace altresì di balzi notevoli, oltre che riuscire all’orecchio interiore come decisamente personale e, a volte, quasi musicale; nella rincorsa alla semplicità in nome della fruizione che caratterizza attualmente un gran numero di opere di narrativa è ancor più semplice cadere nell’uso di frasi, termini, periodi scontati, banali e ritriti, capaci di far digrignare i denti anche al più strenuo e inossidabile fan della categoria degli scrittori emergenti, e posso affermare che non è questo il caso; è chiaro che vi è una ricerca linguistica da parte dell’autore per evitare l’affossante e sciatta banalità espressiva, ma è anche vero che ci si imbatte nel testo in alcune costruzioni che, seppur essenzialmente corrette, suonano, più che inusuali, “strane”; vi riporto qui sotto alcuni esempi sia di queste ultime che dei radi errori:

  • «La sua testa però non deve far coppia con quel batuffolo di cotone» p. 11
  • «Il passato lo ha rincorso per il mondo come un gioco di caccia alla volpe» p. 20
  • «L’unica cosa da fare è rivelare il tutto al compagno, almeno in rispetto degli anni vissuti assieme» p. 23
  • «Decine di uomini erano intenti nel domare l’incendio» p. 28
  • «Un eco di scarpe ingarbugliate risuona da una parete all’altra» p. 46
  • «Vite che si sfioravano tra il via vai di treni e il continuo sali scendi» p. 54
  • «Senza nemmeno curarmi di chi avessi affianco» p. 54
  • «Ognuno costipato in quell’area insufficiente e in cerca di una sistemazione ideale» p. 55
  • «Il numero di persone che uscivano era di gran lunga maggiore a coloro che entravano e l’aria si fece meno pesante» p. 55
  • «C’erano occhi […] che fissavano un punto sperso nel vuoto» p. 56
  • «Sputato dalle viscere di un corpo, come al seguito di un trapianto» p. 65

Alle espressioni inusuali e/o scorrette però, proprio grazie all’evidente ricerca da parte dell’autore filtrata dalle proprie capacità tenute a bada da una prosa dal tono sapientemente dosato e dimesso, si contrappongono frasi ed espressioni di una bellezza che si spinge fino al fenomenale, capaci di entrare nell’interiorità del lettore e restarvi a risuonare a lungo; ve ne riporto alcune perché possiate farvi un’idea della qualità della voce dell’autore:

Due semplici barboni, agli occhi della gente, ma pur sempre uomini. Due che in strada ci sono finiti per motivi ben diversi tra loro, ma le cui strade hanno finito per incrociarsi. Non l’hanno scelta quella vita in comune. Il caso si è preso la briga di decidere per loro. E a far da collante, quel bisogno vicendevole del supporto dell’altro. Uniti nella propria similitudine di giovani vite, sterili, a rispecchiarsi nella loro inutilità. Il fallimento dell’uno, quale medicina per l’altro, a ricordare a entrambi di non essere soli. Per quanto i loro percorsi siano diversi, sono solo due ragazzi che si sono arresi alla vita per sfuggire al mondo.

Come cambia il tempo, p. 21

Era come se quella stazione, illuminata e tangibile, rappresentasse il mio presente. Mentre da una parte e dall’altra, in direzioni totalmente opposte, si nascondevano un passato dimenticato e un futuro ancora da scoprire. Dove il buio prevaleva sulla luce, passato e futuro si guardavano faccia a faccia, attraverso un presente all’apparenza immobile.

Spazi ristretti, p. 54

Forse, penso, siamo proprio noi le ombre. Confini senza senso e un cambiar forma per quel sole che è la vita. Giorni bui, in cui ombre si vorrebbe esserlo per davvero. E giorni lucenti, quando si rincorre un qualcosa nel timore che fugga via.

Lungo il sentiero, p. 67

Ma il brano in assoluto più dolorosamente e sensazionalmente bello del libro, che ho letto e riletto e lasciato fluire in me come mi capita solo quando sono alle prese con opere affermate e considerate immortali di Grandi Scrittori, è il seguente:

In quell’occasione, per la prima volta dal giorno della mia nascita, lo sentii pregare il Signore. Pregava affinché la pioggia giungesse al più presto a bagnare la terra. Pregava perché i raccolti non andassero a male. Pregava che la vita tornasse quella di sempre. Non chiedeva ricchezza, né salti di qualità. Da uomo umile qual era, si limitava a supplicare Dio perché gli restituisse la propria vita, in tutta la sua miseria.

A(c)qua-lche passo da casa, p. 28

Questo estratto, da solo, vale l’intero volume; ma più di tutto la frase che lo chiude è per me una delle frasi in assoluto più belle che abbia mai letto in tutta la vita. Rappresenta, riassume ed evoca alla perfezione una parte profonda e significativa di ciò che vuol dire essere degli esseri umani come solo un grande scrittore dotato di una peculiare sensibilità è in grado di fare; in questo brano vi è una summa dell’essere esseri umani nel prismatico transito di senso fra il Mondo della Natura e l’ultramondanità spirituale sia interiore che trascendente; vi è infusa tutta la fragilità commista all’ineludibile speranza che rendono significativa e non inutile l’esistenza dell’umanità sia a livello individuale che generale di fronte all’apparentemente muto evolversi degli incommensurabili moti cosm(olog)ici.

Ragazzi, questa è quella che si può chiamare Letteratura.

Brani di questa caratura, vi assicuro, non riescono ad essere scritti se dietro la penna, o la tastiera, non vi sia qualcuno che abbia le qualità necessarie a poter essere considerato a tutti gli effetti uno scrittore; sono brani che denotano sensibilità, introspezione, intelligenza oltre a una voce autoriale già definita e solida, letteraria, nonostante alcune pecche veniali; e il contenuto tematico dell’opera ne conferma ancor di più le innegabili qualità che non farebbero sfigurare Fuga dal vuoto accanto a libri di autori blasonati consacrati come appartenenti al patrimonio letterario mondiale.

Un viaggio attraverso il vuoto e la sconfitta orribilmente umani

L’aspetto più notevole del libro è sicuramente la densità contenutistica dei temi affrontati così come sono suggeriti dalla quarta di copertina fungente da presentazione sinottica, nella quale si può comprendere come l’attraversamento di quest’opera offrirà spunti di riflessione personali ben distanti dal puro intrattenimento; ciò che si apre è un viaggio introspettivo che ricorda in qualche modo la visione dei quadri di Lesley Oldaker, affascinante, apparentemente abbastanza immediato e non troppo complicato, ma in grado di scavarsi una via fino al centro di se stessi in modo insospettabile.

«Sono un’ombra, penso. E per non essere divorato dalla luce mi sposto per quanto possibile» dal racconto intitolato “Lungo il sentiero”, p. 67
Nell’immagine: di Lesley Oldaker, “Divisions”, 2019

Il racconto iniziale ci inserisce nella plumbea ricerca dell’interiorità inconfessata e non visibile dei volti che incrociamo per strada, spesso specchi rivelatori che rifuggiamo con lo sguardo per non intravedervi nulla che turbi la sana successione di abitudini di cui il nostro incedere attraverso i pascoli delle giornate è solidamente costituito; il climax epifanico fallimentare e lo sviluppo del moto del racconto relegato pressoché completamente all’interno dell’interiorità del personaggio attraverso cui, come lettori, “spiamo” un’interiorità “altra” altrimenti ontologicamente preclusa, fungono da leitmotiv per i racconti successivi, popolati da figure molto simili, le quali, durante la lettura, ricordano molto le sagome buie oldakeriane, separate, opache, inattraversabili persino dal barlume di un momento di genuina consapevolezza, ombre nell’Ade l’una per l’altra e verso sé medesimi.

I testi della raccolta sono stati inseriti secondo una scaletta non casuale, la quale, per intensità e rilevanza di ciascun racconto così come è stato collocato, potrebbe essere raffigurata visivamente come una ω: il primo e l’ultimo racconto, oltre a essere i più lunghi ed elaborati, sono anche i più profondi e approfonditi, mentre il racconto centrale è quello che colpisce maggiormente per ciò che vi avviene (tra l’altro è l’unico in cui vi sia un’azione dalla risonanza inequivocabile).

La raccolta si apre con il primo racconto dal titolo Come cambia il tempo che ci presenta la vicenda di un clochard, un barbone, un hobo, gettandoci in un vuoto il quale è a tutti gli effetti la presenza di questa categoria di invisibili automaticamente rimossa dall’elaborazione percettiva delle persone comuni, urbane, medie, civili, lavoratrici, inserite ordinatamente nel tessuto dell’organizzazione umana. Non credo sia un caso: è una scelta consapevole, per prendere il lettore per i capelli e fargli aprire gli occhi, schivando tutti i facili patetismi e cliché di una narrazione orbitante attorno a un tema che diviene visibile quasi unicamente quando sfruttato per offrire sensazioni strappalacrime dai connotati preconfezionati e prevedibili quanto uno struggente accompagnamento di pianoforte in una scena televisiva/cinematografica colma di pathos. L’incipit percussivo come un colpo di rivoltella – «Torino bastarda.» – e l’incedere asciutto delle parole, vagamente alla Cormac McCarthy, forse più alla Edward Bunker, crea l’immagine tridimensionale e non puramente rappresentativa per sommi capi scontati di uomini, esseri umani vivi e reali, relegati negli anfratti intollerabili e inopportuni della grande urbanità attraversata di fretta dalla “gente normale”, di cui, un tempo, erano parte integrale e integrata anch’essi, soprattutto il protagonista Walter. Questi, in un flashback meditativo notturno epifanico, rivive e ci rivela l’origine della sua caduta e trasformazione in un hollow man non solo in senso eliotiano, ma effettivo, un uomo colmo di vuoto tramite il quale si è spinto – colpevolmente – nell’area di vuoto/rimozione degli occhi di tutti gli altri per fuggire alla responsabilità di una notte, se vogliamo, dionisiaca e irresponsabile. L’epifania della consapevolezza della meccanicità della propria fuga lo porta sulla soglia dell’inversione di questo processo di scomparsa in un appuntamento con se stesso cui, però, sceglie di mancare, rincantucciandosi nel vuoto e nel risentimento infantilistico nel quale è fuggito. Non si tratta di una sconfitta ma più di un rovesciare il tavolo con stizza a metà partita e andarsene con fare oltraggiato. Un rifiuto di partecipare. La sconfitta implica un tentativo, un provarci privo di cattiva coscienza, mentre Walter è il portavoce simboleggiante la malafede permalosa e suscettibile che serpeggia in chi segretamente sia convinto che qualcosa gli sia dovuto pur attestandosi nella passività di una vita non partecipante di nessuna scelta autentica. È un codardo, incapace di ricongiungersi con se stesso, e probabilmente è un mentitore, sia verso di noi lettori che verso se stesso: il modo in cui razionalizza sinteticamente – frettolosamente – l’avventura sessuale di una nottata, il concepimento non previsto (per quanto prevedibile in simili occasioni a causa di inaggirabili fattori fisio-biologici), e più di ogni altra cosa il riconoscimento del nascituro con annesso matrimonio riparatore rivela, nella nebulosità e nell’incongruenza in essa nascosta come possa esservi altro dietro questo avvenimento così centrale eppure ridotto ai minimi termini narrativi; pare strano, stonato, che un simile edonista immaturo abbia scelto di prendersi una tale responsabilità per un senso anacronistico di onore/rispettabilità/ecc., è qualcosa il cui stridore rivela un non detto, un’inconfessabilità persino a se stesso di un desiderio di rivalsa giustificato da un’ingiustizia cosmica dalla quale poter fuggire con (auto)motivata rivalsa sputacchiante livorosa. Proprio per questo l’epifania notturna nel cantiere è fasulla, è teatrale e sceneggiata in se stesso, e ovviamente destinata a non essere raccolta, poiché a Walter piace vivere ai margini, nell’invisibilità, senza alcuna delle responsabilità del vivere civilmente nel consesso degli uomini a rodergli l’imbronciata interiorità cresciuta nell’infantile menefreghismo solipsistico di un io equiparato oltre che espanso a inglobare il Mondo.

In A(c)qua-lche passo da casa vi è colui il quale, rinnegata e dimenticata l’origine contadina, povera riesce a connettervisi fugacemente soltanto tramite l’elemento dell’acqua legato ad un incendio nei terreni vicini a quelli martoriati – di nuovo: dall’ingiustizia cosmica senza volto – della propria povera famiglia fungente da evento catalizzatore della rovina e perdita delle proprietà e del proprio padre il ricordo rievocato del quale si lega semplicisticamente soltanto al peri-ambientalistico spreco dell’acqua stessa, mancando anch’egli come Walter l’appuntamento autentico con se stesso, evitando il nocciolo duro e vergognoso e pesante di un passato in apparenza rievocato ma subito scansato verso un problema antitetico rispetto alla sensibilità della propria comunità di origine, ossia un superficiale ambientalismo velatamente modaiolo che si può osservare fra gli abitatori della moderna urbanità; la stessa ammissione di essere «un predatore del domani» appare come un furbesco modo di condannarsi per assolversi nello stesso istante, un po’ come chi faccia ironia su se stesso per scansare e disinnescare tali attacchi dagli altri. L’auto-condanna è ai propri occhi un’espiazione che tale in realtà non è, poiché il corso della propria vita resta immutato e privo di evoluzione interiore.

Il personaggio di Via libera è un altro manifesto se non di codardia e inettitudine, sicuramente di infantilismo e di uno spirito edonistico e adolescenziale in tutto e per tutto paragonabile a quello di Walter: il desiderio di «un giorno per me stesso e nessun altro, senza pensieri per la testa» è il vagito infastidito di tale stato ombelichescamente rinchiuso nel parco-giochi di un ancestrale “io voglio” mai superato, sviluppato, trasvalutato neppure dopo il matrimonio o addirittura la nascita del proprio figlio; questo racconto potrebbe benissimo essere un episodio precedente pre-imbarbonimento di Walter per quanto i protagonisti risultano affini quasi a collimare, anche se lo scostamento fra l’età del bambino accompagnato allo zoo e quella del figlio realisticamente ancora pannolinodipendente di Walter stesso al momento del suo abbandono coniugale sconfessa una simile ipotesi.

Il peggiore dei protagonisti appare nel racconto dal titolo un po’ didascalico Solo nel branco che anticipa in qualche modo l’inevitabile orrore di un atto innominabile: pur rendendosi perfettamente conto dell’abominio verso cui si lanciano i propri compagni di gang, non compie nulla per evitare che accada, ma vi partecipa portandosi smidollatamente al di là di ogni possibilità redentrice; egli si getta a capofitto nel vuoto senza ritorno cedendo ogni residua possibilità di caritas umana ad un autoillusorio senso di appartenenza non poi così profondo nello spazio d’azione di un istante, palesandoci la consapevolezza della sua colpevolezza e ripugnanza precedente ogni razionalizzazione codarda e infine effettivamente fasulla.

Il personaggio che seguiamo in Spazi ristretti nel suo marinare il lavoro per una corsa in metropolitana nella speranza di una tregua dall’arsura estiva è forse il più insulso fra i protagonisti dei sei racconti, e il proprio momento epifanico costruito sulla prossimità corporea agli altri e al peso dei loro sguardi lo porta a concludere di esser vissuto dietro una maschera – una presa di consapevolezza debole per chi, come si evince dal testo, lavori ogni giorno in un ufficio, luogo per antonomasia del mascherarsi ai colleghi & superiori & tutti-gli-altri ai fini della sopravvivenza; la metafora della “esistenza intera in [un] ascensore” è sicuramente interessante nella claustrofobicità che instilla rispetto all’algoritmicizzazione della vita di chi sia appartenente alla classe media (l’anacronistica borghesia) nel contesto di una grande città in cui il sistema nascosto di caste sociali è esasperato; la “[p]aura degli altri. Paura di me stesso. Paura di tutto e paura di niente” del climax del racconto e del personale processo elucubrativo del personaggio crolla miseramente nell’insulsaggine del semi-piagnucolante “[r]impiansi il fatto di non essere andato al lavoro” e del desiderio infantile uterino del ritornare a casa per rifugiarsi nell’orizzonte dell’ego espanso alle pareti dell’abitazione rifiutandosi di volgere la mente a pensieri simili grazie ad un rassicurante, quasi turistico e sightseeing-esco tour su un autobus.

L’odio del protagonista di Pareti e parole è nuovamente di natura estremamente infantile, diretto alla paraplegia autocausata dalla scelta del padre di acquistare una moto e alla caduta, casuale quanto pessimisticamente paventata; ma più che scaturire dall’evento casuale, per quanto temuto, dell’incidente, quest’odio sembra un’ombra che grava nel protagonista da ben prima di ciò, almeno dal momento dell’annuncio del desiderio del padre di detto acquisto. È uno strappo originario, oserei dire in sé fin dalla nascita, che permea l’animo cinereo del protagonista – l’avversione per le luci natalizie e ciò che richiamano, per i gesti sciocchi quanto possono esserlo quello di due giovani e casuali partner di una coppia incontrata e osservata per caso sono sintomatici e rivelatori di questo rancore fondante e originario che trova giustificazione e ragion d’essere solamente a posteriori.

Il racconto in chiusura del libro Lungo il sentiero ci mostra un protagonista insofferente e familiarmente contraddittorio; l’interiore disprezzo per la massificazione e il consumismo viene immediatamente contraddetto dai propri atti diametralmente opposti alle proprie riflessioni da cui origina la rabbia che tenta di sfogare sulla muta, inerte e inerme Natura che è lo specchio della propria inerzia colpevolmente inetta con la quale egli, pur tentando apparentemente di differenziarsi, si identifica nullificandosi così di fatto dinnanzi a se stesso; il luogo vacanziero marittimo affollato, la preoccupazione per il proprio aspetto estetico in costume, gli occhiali costosi rivelano la cattiva coscienza che sconfessa ogni possibile rivelazione autoconsapevole capace di portarlo, lungo un proprio personale sentiero di crescita, al di là del circolo vizioso di contraddizioni insofferenti entro cui rincorre se stesso. Il fatto di dirsi che è un codardo incapace di appartenere sia al mondo massificato di tutti gli altri che al mondo della Natura al di là del primo, invece che elevare il protagonista verso una presa su se stesso più forte come primo passo verso un’autentico cambiamento che spezzi quel circolo vizioso piatto reca in sé la denigratoria autoassoluzione con la quale giustificare l’incapacità di cambiamento relegata nella miseria afasica di una speranza già confinata e disinnescata nel momento in cui venga sospirata espressa dal finale, vuoto e vanamente sognante (i.e.: irreale): «certo, però…sarebbe bello.»

I personaggi dei racconti non sono uomini sconfitti, bensì codardi, meschini, micragnosi; essi non fuggono dal vuoto, come potrebbe suggerire il titolo, ma lo creano/alimentano in se stessi da sé; l’introspezione che mettono in atto e che, attraverso l’autore, noi lettori vediamo/esperiamo non porta a nulla di diverso nel loro status interiore, poiché non cambiano dall’inizio alla fine della porzione della loro vicenda personale a cui assistiamo. In questo senso sono affini ai personaggi delle Brevi interviste a uomini schifosi di David Foster Wallace essendo però peggiori; rispetto alle mostruosità ritratte da Wallace, le figure umane di Lufuluabo vengono tutte mostrate nel momento in cui paiono giungere all’epifania di una lucida consapevolezza rispetto a se stessi che, però, immediatamente, scelgono di ignorare condannandosi così ad una colpevolezza senza appello ancora più grave di quella imputabile agli str***i assoluti palesantisi inconsapevolmente a se stessi come tali nei brani delle interviste wallaciane. Il rendersi conto della propria colpevolezza e dei propri atti annulla doppiamente ogni possibilità di speranza. La scelta conseguente che ognuno di essi opera dopo l’intima rivelazione genera il vuoto pessimistico in cui sembra che tutti questi uomini – sì, tutti i protagonisti dei racconti sono maschili – si accoccolino, dopo le esitanti e già negate parole di redenzione/cambiamento/catarsi, nella porzione di racconto che prosegue oltre il termine di inchiostro fissato per ciascuno di essi, finalmente nascosti dallo sguardo di tutti, anche di quello di autore e lettore, pasciuti e in malafede, tappandosi occhi, naso e orecchie come a ripetersi nell’oscura sala macchine dell’inconscio che tutto quanto è solo un gioco meccanicistico predeterminato al di là di ciascuna delle proprie possibilità (per tacere dell’ineradicabile Volontà) di cambiamento. In quest’ottica questi personaggi sono per certi aspetti più terribili di quelli wallaciani poiché riflettono le micragnosità e meschinità di cui tutti noi, in misura maggiore o minore, siamo afflitti, responsabili, costituiti, colpevoli.

Altre osservazioni sull’oggetto-libro

Informazioni generali

  • Titolo: Fuga dal vuoto – Storie di uomini sconfitti
  • Autore: Jacques Oscar Lufuluabo
  • Editore: Amazon (autopubblicazione)
  • Formato: e-book; brossura
  • Data di pubblicazione: 9 aprile 2018
  • Genere: narrativa contemporanea; racconti
  • Numero di pagine: 80
  • Prezzo: 2,99 € e-book (Kindle); 5,99 € volume cartaceo

Titolo/i

Il titolo e il sottotitolo del libro sono fuori asse rispetto ai racconti, poiché ne contraddicono il contenuto senza riuscire del tutto a creare un cortocircuito dialettico più elevato che riveli una luce di significato più ampia e trascendente. I titoli paiono un po’ come un punto debole dell’autore, perlomeno in quest’opera, come avrete potuto intuire fino a qui: quelli dei singoli racconti sono come desincronizzati rispetto al contenuto dei testi, non in grado di centrarne la pulsazione interiore (il peggiore fra tutti è sicuramente quello del racconto che offre la frase più bella di tutta l’opera, ossia A(c)qua-lche passo da casa, un titolo senza mezzi termini farraginoso e brutto).

Quarta di copertina

Così come riportata sul sito:

Insoddisfazione, codardia, inettitudine, sono solo alcuni dei tratti che caratterizzano i personaggi di questa antologia. Uomini prigionieri di se stessi, o del mondo circostante, che nel tentativo di sottrarsi alle complicazioni della vita si ritrovano ad affrontare le paure e le incertezze che segnano l’esistenza di ognuno di noi.
Un viaggio interiore in cui la “fuga” diviene sinonimo di sconfitta, perdita, evasione e spirito di sopravvivenza.

Questa presentazione sinottica si adatta abbastanza bene a ciò che il libro offre, pur mancando in qualche modo gli strati più profondi delle tematiche trattate, e risulta tutto sommato adeguata a presentare l’opera al potenziale lettore/acquirente in una luce che non risulti fuorviante.

Copertina

Purtroppo la copertina è un altro punto scricchiolante e, temo, non propriamente riuscito; l’intensa gamma di colori da savana del tramonto che si vede attraverso la sagoma vuota dell’uomo accoccolato pensosamente/sconsolatamente fanno pensare istantaneamente, ancor prima di leggere il titolo, ad un libro dell’area di Wilbur Smith, afferente in qualche modo all’Africa e a una vicenda peri-avventurosa. Il fatto che la sagoma umana vuota sia colma di questa luce che, pur se in tramonto, contrasta sensorialmente con quanto enunciato da titolo e sottotitolo, i caratteri dei quali risultano leggibili e, “senza infamia e senza gloria”, appropriati per una copertina, un po’ meno forse per la specifica uniformità del campo bianco minimal della presente. Si capisce l’intento dietro questa composizione, ma non credo sia del tutto riuscita poiché non si intona del tutto con il contenuto creando una certa discrepanza fra quanto visivamente suscita e ciò che si prova durante la lettura.  

Impaginazione

L’impaginazione è di livello discreto, essendovi una certa presenza di “righini” e “mozzini” difficili da ignorare che suggeriscono la natura “autarchica” del lavoro svolto sulla stessa; le pagine racchiudono tra i 1.600 e i 1.700 caratteri, risultando così più brevi della cartella standard, ma tale soluzione atta ad allungare lo sviluppo cartaceo è comprensibile a causa della brevità dell’opera; nelle “testatine” delle pagine, al nome dell’autore alternato al titolo della raccolta avrei ritenuto più logico apporre il titolo di ciascun singolo racconto (come nelle opere della Einaudi per intenderci), oltre che più comodo verso il lettore che volesse rileggere non consecutivamente determinati testi senza dover ricorrere per forza all’indice; quest’ultimo, poi, posto al principio del volume con la denominazione “indice” è, purtroppo, un vero e proprio errore.

Sintesi conclusiva

Un’ottima raccolta di racconti, nonostante alcune debolezze, scritta da un autore dalla voce e dallo stile definiti e riconoscibili e avviati verso una solida maturità; in mezzo al florilegio di titoli non proprio distinguibili che, ahimè, caratterizza molta della produzione degli emergenti, Fuga dal vuoto riesce a spiccare e a imporsi grazie alla profondità dell’esplorazione dell’animo umano – pur se declinato più verso gli aspetti più oscuri e riprovevoli – e all’espressività riconoscibile dello stile dell’autore, il quale, pur adottando una prosa piana, segmentata in periodi brevi, priva di leziosità, riesce, schivando il pericolo delle frasi fatte e della scontata banalità, a trasmettere se stesso senza divenire ingombrante, inanellando altresì alcune frasi degne della più alta Letteratura. Un’opera notevole e rischiosa, difficile da assimilare per chi sia in cerca del puro intrattenimento, ma ricca di spunti di riflessione introspettiva lontani da ogni pretesa di spiegazione o consolatorietà, dietro cui si può riconoscere il volto di un reale essere umano e non di un simulacro realistico di esso creato, animato e pervaso dal golem del desiderio-di-vendibilità.

Nota biografica sull’autore

Jacques Oscar Lufuluabo nasce a Roma nel 1972. Dopo gli studi si specializza nel settore del fumetto, collaborando per diversi anni con testate giornalistiche locali. Successivamente consegue la qualifica professionale di copywriter e frequenta corsi di scrittura creativa e di sceneggiatura per la fiction tv.
Esordisce nel 2008 con il racconto Una vita da guardare, edito dalla Giulio Perrone Editore nella raccolta La vita che vorrei. Da allora ha pubblicato diversi racconti in antologie letterarie, l’ultimo dei quali finalista del concorso Cultora 2016.
Come autore indipendente ha pubblicato il romanzo thriller L’ombra del castigo – selezionato dalla Scuola Holden tra i finalisti del concorso letterario ilmioesordio e ora disponibile anche nella versione inglese Shadow of Punishment –, il racconto noir L’ultimo giro e la raccolta di racconti Fuga dal vuoto: storie di uomini sconfitti.
Il suo prossimo romanzo dovrebbe uscire entro la fine dell’anno.

Nota personale del recensore

Il processo da cui generalmente si origina una recensione di un libro di uno scrittore emergente (i.e.: proposta di recensione di un’opera; lettura dell’opera al fine di recensirla; recensione) in questo caso è avvenuta secondo un processo inverso: dopo la lettura della recensione di Edoardo Contin su SpazioScritto101, questi mi ha inviato in lettura una copia di Fuga dal vuoto. La lettura di questo libro mi ha colpito poiché è un’opera coraggiosa, privo di ogni forma di consolatorietà e mercificabilità: è la prova di uno scrittore come tale poiché giace al di là di ogni possibile rassicurazione razionalizzatrice che ciascuno di noi potrebbe ripetersi per conservare l’integrità dell’idea di noi stessi; Fuga dal vuoto instilla un dubbio porgendo uno specchio nel quale non è possibile non intravedere alcune delle nostre fattezze in ciascuno dei tratti dei protagonisti, ordinari, urbani, prossimi a noi in tutte le piccolezze e tacite meschinità che, come fallibili umani, ci costellano in varia misura. Per uno scrittore emergente, affrontare un tema di questo genere è doppiamente coraggioso poiché preclude a priori un grande fetta di potenziale pubblico pagante che, giusto o sbagliato che sia, non desidera affrontare un viaggio introspettivo quale quello offerto da Lufuluabo capace di mostrare impietosamente parti di sé che non dovrebbero mai essere mostrate e/o anche solo riconosciute come tali. Eppure questo è precisamente uno dei compiti di ciò che è autenticamente Arte diversamente da ciò che nasce per semplice, per quanto dignitoso e valido, intrattenimento. Per questa ragione, oltre che per le innegabili qualità del libro, nell’augurargli di trovare la visibilità letteraria che merita, vorrei spronare l’autore a continuare lungo il sentiero che ha tracciato con Fuga dal vuoto poiché credo che come umanità/mondo abbiamo bisogno di più opere di questo genere, oltre che della sua personalissima voce.

Fattori componenti il voto finale

Qui di seguito vi sono i voti singoli di tutti i fattori analizzati che, combinati, risulteranno nel voto finale a valutazione dell’opera considerata in tutti i suoi aspetti; oltre a ciò, poiché l’operazione di recensione non è riducibile ad una mera operazione algoritmica, mi sono riservato il diritto di assegnare un bonus (o un malus) che rispecchi la non misurabilità di ciò che è e, fortunatamente, resta una prerogativa inevitabilmente umana troppo umana quale la scrittura di testi/opere di narrativa.

  • Scrittura: 8
  • Stile/voce dell’autore: 9
  • Contenuto: 9
  • Strutturazione: 8
  • Titolo/i: 6,5
  • Quarta di copertina: 8,5
  • Copertina: 7
  • Impaginazione: 7

Lucida e inesorabile media finale matematica (approssimata a un decimale): 7,9

Bonus del molliccio e umano recensore per il non misurabile quid insito nell’opera: +1

Voto finale

8,9/10

Classificazione: 9 su 10.

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